
Rassegna Stampa
Il Gino Strada che accusa di fascismo? E’ lo stesso che da giovane prendeva a sprangate in testa chiunque non la pensasse come lui


Non tutti, anzi, pochi italiani conoscono la vera storia di Gino Strada, l’icona della sinistra che si permette di elargire patenti di razzismo a chiunque non la pensi come lui. Forse è giusto rivangare la memoria, riproponendovi un ritratto di questo personaggio che qualche anno fa fece il grande giornalista Gigi Moncalvo:
C’è uno strano caso di “silenzio stampa” in questo nostro grande paese: quello riguardante il passato violento del dottor Gino Strada. Il pacifista, la colomba, l’uomo che ama il bene e fa del bene, il missionario laico che va in soccorso degli oppressi, colui che predica col ramoscello d’ulivo in bocca, è lo stesso che faceva da “luogotenente” – insieme al futuro odontoiatra Leghissa – a Luca Cafiero il famigerato capo del servizio d’ordine del famigerato Movimento Studentesco del l’Università Statale di Milano, quello dei terribili e mai dimenticati “katanghesi”. Sì, è proprio lui: il “pacifista” Gino Strada, colui che oggi dà dei “delinquenti politici” agli esponenti della casa della Libertà e dei DS che non vogliono soggiacere ai suoi diktat di aspirante leader politico che sogna un seggio in Parlamento.
Per l’esattezza Strada, insieme a Leghissa, era il capo del servizio d’ordine di Medicina e Scienze e il suo gruppo o squadra aveva questo inequivocabile nome: “Lenin”. Rispetto ai capi degli altri servizi d’ordine – ad esempio Mario Martucci per la Bocconi e il suo gruppo “Stalin”, o Franco Origoni per la squadra di Architettura, o Roberto Tuminelli, l’erede delle famose scuole private per il recupero-anni, alla guida del gruppo “Dimitroff”, il bulgaro segretario della Terza Internazionale accusato da Hitler di aver incendiato il Reichstag – il gruppo guidato da Strada si distingueva per la più cieca obbedienza e fedeltà a quel fior di democratico e di amante dei diritti civili che rispondeva al nome di Luca Cafiero, capo supremo di tutti i Servizi d’Ordine e poi divenuto deputato del PCI, candidato a Napoli, dove superò addirittura in fatto di preferenze l’on. Giorgio Napolitano. Ora Cafiero è ritornato a fare il docente universitario alla facoltà di Filosofia della Statale. Al comando generale e assoluto di Cafiero c’erano i gruppi “Stalin”, “Dimitroff” e tanti altri – ciascuno dei quali aveva uno o più sotto-capi -, ma era il “Lenin” di Gino Strada che si distingueva per la prontezza e la capacità di intervento laddove ce ne fosse stato bisogno.
In sostanza, ancora ben lontano dallo scoprire il suo attuale animo pacifista, Gino Strada era uno degli uomini di punta di quel Movimento dichiaratamente marxista-leninista-stalinista-maoista che aveva i suoi uomini guida in Mario Capanna, Salvatore “Turi” Toscano e Luca Cafiero.
I milanesi, e non solo loro, ricordano benissimo quegli anni, e soprattutto quei sabati di violenza, di scontri, di disordini. Ma ora nessuno dice loro che ad accendere quelle scintille c’era anche l’odierno “predicatore” Gino Strada. Solo che allora non aveva dimestichezza con le colombe bianche, le bandiere multicolori, il rispetto altrui, il ramoscello d’ulivo. Ma era molto di più avvezzo ai seguenti segni identificativi: l’eskimo, il casco da combattimento, e l’obbligo di portare con sé, 24 ore su 24, le “caramelle”: cioè due sassi nelle tasche e soprattutto “la penna”, cioè la famosa Hazet 36 cromata, una chiave inglese d’acciaio lunga quasi mezzo metro nascosta sotto l’eskimo o nelle tasche del loden.
Alla “penna” – si usava questo termine durante le telefonate per evitare problemi con le intercettazioni – si era arrivati partendo dalla “stagetta” (i manici di piccone che avevano il difetto di spezzarsi al contatto col cranio da colpire), dalle mazze con avvitato un bullone sulla sommità per fare più male, e dai tondini di ferro usati per armare il cemento, ma anch’essi non adatti poiché si piegavano.
I katanghesi e il loro servizio d’ordine, Gino Strada in testa, erano arrivati a questa scelta finale in fatto di armamentario, su esplicita indicazione del loro collegio di difesa che allineava nomi oggi famosissimi come quello di Gaetano Pecorella, Marco Janni, Gigi Mariani, insieme ad altre decine di futuri principi del foro, mentre sul fronte dei “Magistrati Democratici” spiccava la figura di Edmondo Bruti Liberati.
Il “collegio di difesa” aveva dato istruzioni ben precise in caso di arresti e processi: “Negare sempre l’evidenza”, anche in caso di fotografie o filmati inequivocabili, definire come “strumento di lavoro” la scoperta eventuale della chiave inglese. Sarebbe stato difficile giustificare come tale un manico da piccone o un tondino di ferro, facilmente considerabili e catalogabili come “arma impropria”, mentre diventata più facile con la chiave inglese. “Dite che stavate andando a riparare il bagno della nonna o che vi serviva per sistemare l’auto di vostro padre”, poteva essere una delle indicazioni difensive consigliate in caso di bisogno.
“Pacifici ma mai pacifisti” era uno degli slogan ideati da Mario Capanna, ed è strano dunque che oggi Gino Strada si definisca proprio “pacifista”. Comunque – a parte la canzoncina ritmata con cui si caricavano prima degli scontri (kata-kata-katanga) – essi pronunciavano ad alta voce ben altri slogan di quelli di oggi e perseguivano ben altri obiettivi. E i loro avversari non erano solo i Tommaso Staiti sul fronte della destra, ma anche i “compagni” di Avanguardia Operaia (molti dei quali oggi sono esponenti dei Verdi), Lotta Continua (dei Sofri, Mario Deaglio, Gad Lerner, apprezzato radiocronista dai microfoni di Radio Popolare incaricato di dare le istruzioni in diretta sulle vie da evitare e sulle strade di fuga in cui fuggire) e Lotta Comunista (memorabile e indimenticabile uno scontro di inaudita violenza) e perfino coi primi gruppi di Comunione & Liberazione. Anche quelli di sinistra erano i “nemici” di Strada al pari di Tom Staiti e dei suoi.
Non c’è bisogno di scomodare la memoria del prefetto Mazza e del suo famoso rapporto, la cui rispondenza alla verità venne riconosciuta solo molti anni dopo, per affermare che il servizio d’ordine del Movimento Studentesco era uno dei corpi più militarizzati, una autentica banda armata che incuteva terrore e seminava odio in quegli anni. Si trattava di una autentica falange macedone di 300-500 persone, (Strada e Leghissa ne guidavano una cinquantina), che non arretravano di un millimetro nemmeno di fronte agli scudi del la polizia in assetto da combattimento. Semmai, purtroppo avveniva talvolta il contrario. Unico aspetto positivo è che, a differenza di Lotta Continua, l’MS non ha prodotto successivi passaggi al terrorismo. Anche se bisognerebbe riaprire le pagine del delitto Franceschi alla Bocconi e sarebbe ora che la coscienza di qualcuno che conosce la verità finalmente si aprisse.
Che si trattasse di un corpo militarizzato, in tutti i sensi, strumenti di violenza compresi, è fuor di dubbio. Così come è indubitabile la autentica ed elevata ferocia che caratterizzava quei gruppi che attaccavano deliberatamente la polizia come quando si trattò di arri vare alla Bocconi per conquistare il diritto dei lavoratori ad avere le aule per i loro corsi serali. E non possono certo essere le attuali conversioni dei Sergio Cusani, degli Alessandro Dalai, dei Gino Strada, degli Ugo Volli (considerato, senza ritengo alcuno, “l’erede di Umberto Eco”) o degli Ugo Vallardi (al vertice del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera) a far dimenticare quegli anni, quelle violenze, e quelle “squadre di propaganda” di cui faceva parte anche un certo Sergio Cofferati, in qualità di studente-lavoratore della Pirelli. Qualcuno, quando incrocia il dottor Gino Strada in qualche talk-show televisivo, vuole provare a ricordargli se ha qualche ricordo di quei giorni, di quegli scontri, di quelle spranghe, di quei ragazzi (poliziotti o studenti) rimasti sul selciato?
Che bello sarebbe poterglielo chiedere al dottor Gino Strada se rinnega il suo passato e come si concilia col suo presente. E poi, soprattutto: quale titolo ha costui per poter definire “delinquenti politici” gli altri?
13 MARZO 1975 – “HAZET 36. FASCISTA DOVE SEI?”
Tratto da

Il giorno dell’agguato. Il racconto della madre.
«Quella mattina del 13 marzo 1975 ho già dovuto ricordarla tante volte… anche davanti al giudice». «Ero uscita di casa poco dopo mezzogiorno per andare a prendere la bambina a scuola, in viale Romagna. Quando sono tornata, verso l’una e un quarto, la prima cosa che ho visto era il Ciao di Sergio a terra… Un capannello di gente… Una gran confusione… Una vicina di casa mi ha strappato dalle mani la bambina gridando “Simona resta con me!”».

È bella Milano in Primavera.
A marzo, per esempio, quando il grigio dell’inverno lascia lo spazio ad un pallido sole che scalda la città.
È bella Milano.
Anche in quel marzo della metà degli anni ’70.
Perché nonostante scontri, cariche, manifestazioni, cortei, omicidi, c’è ancora un briciolo di normalità.
Almeno questo deve pensare Sergio Ramelli, vent’anni ancora da compiere, che in quell’ultima stagione della sua vita, ha una voglia matta di dare libero sfogo a tutte le sue passioni.
Adora Adriano Celentano.
Le sue canzoni, a detta di sua mamma Anita, le canta a squarciagola per tutta casa.
Ma non basta.
Gli piace anche il calcio, tifa l’Inter, proprio come Celentano.
Quei colori nerazzurri lo hanno conquistato fin da quando è piccolo.
Ma non è un fanatico.
È andato allo stadio solo qualche volta.
La sua fede se la porta dentro.
Come molte altre cose.
È riservato Sergio. Riservatissimo.
Non dice mai una parola di troppo. Gli piace cavarsela da solo, senza dover dare preoccupazioni ai suoi genitori. Che, infatti, non ne hanno. Sì perché i Ramelli hanno cresciuto un figlio come ce ne sono pochi. È diligente, studioso, mette passione in tutto ciò che fa. Frequenta l’istituto tecnico Molinari.
A Milano.
La sua classe è la V J. “Aveva scelto quella scuola perché amava la matematica e la chimica.
Era bravo a scuola e qualche volta a casa avevamo anche parlato del suo futuro: avrebbe voluto iscriversi proprio alla facoltà di Chimica.
Aveva sempre avuto dei bei voti, anzi, a dire il vero, qualche volta gli avevano anche annullato dei compiti di matematica perché li aveva passati ai compagni.

Anche questo nessuno lo ha mai detto. Sergio era generoso, allegro, aveva degli ottimi rapporti con i compagni di classe…” Lo ricorda così suo figlio, Anita Ramelli, nell’unica intervista rilasciata in anni e anni. Quella da cui Guido Giraudo, insieme ad AndreaArbizzoni, Giovanni Butti, Francesco Grillo e Paolo Severgnini, ha preso ispirazione per il suo Sergio Ramelli: una storia che fa ancora paura.
Ha una ragazza, Sergio.
Si chiama Flavia.
Si vogliono bene. Si amano, come ci si ama a vent’anni, completamente.
Non vanno a scuola insieme. Flavia, figlia di un preside, ha dovuto cambiare istituto perché ha avuto non pochi problemi con i ragazzi di sinistra. Ma questo, per Sergio e Flavia, non è un problema.
Porta i capelli lunghi Sergio. Non solo perché in quegli anni va di moda così. A lui quella chioma scura, che gli arriva praticamente alle spalle, piace proprio.
Cosa importa se ogni tanto lo scambiano per uno di sinistra?
I suoi amici, quelli che lo conoscono veramente, sanno benissimo lui come la pensa.
È iscritto al Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del MSI).
È di destra Sergio Ramelli.
Un ragazzo di destra che ama il calcio, la musica, lo studio.
Ma quando un gruppo di esponenti di Avanguardia Operaia lo massacra a colpi di chiave inglese, “regalandogli” un’agonia di 47 giorni, prima di vederlo morire in un letto d’ospedale, Sergio non è nient’altro che un “fascista” da eliminare.
Anche se non si sa in che modo, a nemmeno vent’anni, si possa rappresentare un nemico che va annientato.
Senza pietà.
Ma ciò che porterà alla morte di Sergio Ramelli è un lungo periodo di persecuzione, minacce, soprusi.
E tutto per un tema. Sì, si può dire che quel ragazzo studioso, con la passione per Celentano e per la matematica, sia stato ucciso per le frasi scritte in un compito in classe.
Comincia tutto all’inizio del 1975. È gennaio. Il professore di lettere della V J, Giorgio Melitton, è un simpatizzante della sinistra extraparlamentare. Nulla di sorprendente. Anzi, si potrebbe dire che in quegli anni (e non solo), essere docente e “compagno”, è la regola.
Melitton, però, non è un esaltato come molti dei suoi colleghi e, probabilmente, quando assegna quel tema in cui chiede ai suoi alunni di parlare di attualità, non vuole fomentare l’odio fra i ragazzi.
Forse, ha solo la curiosità di sapere come la pensano.
Non può immaginare che, in pratica, sta firmando la condanna a morte di un ragazzino di 19 anni. Sergio, ovviamente, sceglie quella traccia.
Vuole parlare delle Brigate Rosse. Racconta di come il duplice omicidio di un anno prima deimissini di Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, sia stato l’inizio della spirale di odio e terrore in cui i terroristi di sinistra stanno trascinando l’Italia.

È la prima volta in cui le BR uccidono. E uccidono due militanti di destra. È la logica del sangue e della destabilizzazione che porterà, nell’apice della follia, all’uccisione di Aldo Moro. Ma questo Sergio non lo può sapere. Però ha compreso perfettamente la pericolosità di quell’organizzazione, armata e violenta, che con i suoi omicidi riscuote così tanto successo, perfino fra i suoi compagni di scuola.Non se lo può immaginare, Sergio, che quelle frasi saranno la sua condanna.
Sì, perché quel tema, il professor Melitton, non lo correggerà mai. Al termine del compito, infatti, uno dei compagni di classe di Ramelli viene incaricato di raccogliere tutti gli elaborati della V J. Quando è nel corridoio, però, un gruppetto di rappresentanti di Avanguardia Operaia, il collettivo più “forte” del Molinari, strappa di mano al ragazzo tutti i temi. I “compagni”, i “rossi”, dentro l’Istituto si possono permettere di fare tutto quello che vogliono. Si mettono a leggere e controllare tutti i compiti.
Spulciano ogni frase.
Un paio di ore più tardi, i due fogli protocollo scritti da Sergio Ramelli vengono esposti nella bacheca all’entrata della scuola. Tutte le frasi, o quasi, sono sottolineate. E, sopra, una scritta rossa impressa a caratteri di fuoco: “ecco il tema di un fascista”.
Da questo momento in poi Sergio diventa un bersaglio con il quale giocare al tiro a segno. E, grazie ad un gruppo di docenti disinteressati e omertosi, la persecuzione non è poi così difficile. Gli insegnati assistono passivamente ad una serie di episodi raccapriccianti.
Durante una lezione, per esempio, Sergio Ramelli viene prelevato di forza dal suo banco, portato nel corridoio. Sputi, insulti. Gli urlano in faccia “sei un fascista! Vergognati!”.
Nessuno interviene. Nessuno interrompe.
“Ramelli, con te abbiamo appena iniziato”. È un avvertimento. E, infatti, a quell’episodio ne seguono molti altri. Una mattina di gennaio, lo aspettano sotto casa. Il gruppo è composto da ragazzi che sono tutti più grandi di lui. Sergio, molti di loro neppure li conosce. Non vanno al Molinari, ma lo obbligano comunque a riverniciare i muri dell’Istituto. Lo “sbiancamento”, lo chiamano. In realtà è solo l’ennesima umiliazione. Ottanta “compagni” (questo racconteranno alcuni testimoni ai magistrati durante le indagini per la morte di Ramelli), contro un ragazzino di neppure vent’anni. Ancora una volta, tutti vedono, nessuno interviene.
Per non far preoccupare sua madre, Sergio non le racconta nulla. Tiene i genitori all’oscuro delle vessazioni continue cui lo sottopongono i membri del collettivo a scuola. Eppure, le minacce cominciano a non limitarsi solamente alle ore in cui Sergio sta a lezione. Poco prima dell’aggressione, cominciano le telefonate anonime a casa. Dall’altra parte della cornetta nessuno parla, si sente soltanto l’inequivocabile motivetto di Bandiera Rossa. Poi compaiono le scritte sotto casa: “Ramelli, fascista, sei il primo della lista”.
Tutti leggono. Ma nessuno pensa di dover proteggere quel ragazzo letteralmente perseguitato dagli autonomi che dettano legge nella sua scuola. Ma, d’altra parte, Milano è sempre la stessa città che ha assistito inerme alla morte annunciata di Luigi Calabresi. Condannato, senza appello, da Lotta Continua, perché ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.
Il 13 marzo del 1975 cade di giovedì.
Quella mattina Sergio va a scuola come tutti i giorni.
Segue le lezioni. Aspetta come al solito il suono della campanella. È l’ora di pranzo quando riprende il suo vecchio motorino (usato), quello che gli hanno regalato mamma e papà, per dimostrargli che si fidano di lui, perché sanno che è un ragazzo responsabile e diligente.
Questo non basterà a salvargli la vita. Sì, perché qualche giorno prima, Roberto Grassi, uno dei capibastone di Avanguardia Operaia ha deciso che Ramelli deve essere l’obiettivo della loro prima aggressione. E dietro l’agguato, c’è un disegno ben preciso, un’idea molto chiara. Nonché la consapevolezza di una probabile impunità.
C’è uno slogan della sinistra extraparlamentare di quegli anni che, a rileggerlo oggi, fa venire i brividi: “Hazet 36. Fascista dove sei?” La Hazet 36 è una chiave inglese. È lunga quarantacinque centimetri. Pesa quasi tre chili e mezzo. Un colpo inferto con quella è letale come il proiettile sparato da una pistola. Ma laHazet è molto più facile da trovare. Basta andare in un ferramenta.Avanguardia Operaia usa le chiavi inglesi come strumento per il servizio d’ordine durante le manifestazioni. Ma vanno benissimo anche per frantumare il cranio ad un ragazzino di 19 anni che torna da scuola.
Quando Sergio parcheggia il suo “Ciao” sotto casa, lo aggrediscono in quattro. Uno resta a fare il palo. Lo colpiscono a ripetizione. Con una violenza inaudita. Senza pietà, come belve feroci e assetate di vendetta. È il loro battesimo del sangue.
L’azione dura pochi minuti. Sergio rimane a terra, in un lago di sangue. È ancora vivo. Per altri quarantasette giorni combatterà con la morte, in un letto dell’ospedale Maggiore di Milano. Poi, dopo un’agonia senza paragoni, anche il suo cuore si arrende.
I responsabili della sua morte sono stati individuati. Il processo farsa che è seguito alla barbara aggressione contro Ramelli, merita di essere raccontata a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, in occasione dell’anniversario della morte di Sergio, il 29 aprile.
“La morte di un tempo aveva la falce, la morte di oggi ha pure il martello, lasciò la sua firma su quel muro di calce, proprio di fronte al tuo cancello.”
In realtà, per Sergio Ramelli, la morte ha nelle mani una chiave inglese e il volto di un drappello ragazzi, poco grandi di lui. Che lo massacrano senza pietà.
Vigliacchi fino alla fine.
Forti del fatto che spaccare la testa a un “fascista”, non è un reato.
Nemmeno se è un ragazzo di 19 anni.
Micol Paglia
make it or break it
Il Gino Strada che accusa di fascismo? E’ lo stesso che da giovane prendeva a sprangate in testa chiunque non la pensasse come lui
Non tutti, anzi, pochi italiani conoscono la vera storia di Gino Strada, l’icona della sinistra che si permette di elargire patenti di razzismo a chiunque non la pensi come lui. Forse è giusto rivangare la memoria, riproponendovi un ritratto di questo personaggio che qualche anno fa fece il grande giornalista Gigi Moncalvo:
C’è uno strano caso di “silenzio stampa” in questo nostro grande paese: quello riguardante il passato violento del dottor Gino Strada. Il pacifista, la colomba, l’uomo che ama il bene e fa del bene, il missionario laico che va in soccorso degli oppressi, colui che predica col ramoscello d’ulivo in bocca, è lo stesso che faceva da “luogotenente” – insieme al futuro odontoiatra Leghissa – a Luca Cafiero il famigerato capo del servizio d’ordine del famigerato Movimento Studentesco del l’Università Statale di Milano, quello dei terribili e mai dimenticati “katanghesi”. Sì, è proprio lui: il “pacifista” Gino Strada, colui che oggi dà dei “delinquenti politici” agli esponenti della casa della Libertà e dei DS che non vogliono soggiacere ai suoi diktat di aspirante leader politico che sogna un seggio in Parlamento.
13 MARZO 1975 – “HAZET 36. FASCISTA DOVE SEI?”
Il giorno dell’agguato.
Il racconto della madre.
«Quella mattina del 13 marzo 1975 ho già dovuto ricordarla tante volte… anche davanti al giudice». «Ero uscita di casa poco dopo mezzogiorno per andare a prendere la bambina a scuola, in viale Romagna. Quando sono tornata, verso l’una e un quarto, la prima cosa che ho visto era il Ciao di Sergio a terra… Un capannello di gente… Una gran confusione… Una vicina di casa mi ha strappato dalle mani la bambina gridando “Simona resta con me!”».
… ritengo che nessun commento, per quanto giustamente sconvolto da questa faccenda che già conoscevo, possa rendere onore e giustizia a Ramelli.
La sinistra conferma, una volta di più, che l’unica loro dottrina è la distruzione totale; non sapendo costruire, hanno sempre distrutto tutto: cultura, sociale, giustizia, arte, urbanistica, religione, sport, libertà, natura
un saluto
Piero e famiglia
You could definitely see your expertise in the work you write. The world hopes for even more passionate writers like you who aren’t afraid to say how they believe. Always follow your heart.